Platone, biografia, opere

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halu
00venerdì 29 settembre 2006 21:23
Platone nacque ad Atene da famiglia aristocratica nel 428 a.C. Secondo Aristotele, ebbe tra i suoi maestri Cratilo, seguace di Eraclito. A vent'anni cominciò a frequentare Socrate, e ripudiò la sua precedente vocazione poetica, dando alle fiamme i suoi versi. Secondo quello che egli stesso dice nella Lettera VII (che è di fondamentale importanza per la sua biografia e per l'interpretazione della sua stessa personalità), avrebbe voluto dedicarsi alla vita politica. La morte di Socrate lo dissuase dal fare politica in patria, ma non per questo rinunciò a perseguire l'ideale di un reggimento filosofico della città. «Io vidi, egli dice, che il genere umano non sarebbe mai stato liberato dal male, se prima non fossero giunti al potere i veri filosofi o se i reggitori di Stato non fossero, per divina sorte, diventati veramente filosofi». Negli anni seguenti, si recò a Megara presso Euclide, poi in Egitto e a Cirene. Nulla sappiamo intorno a questi viaggi, dei quali egli non parla. Parla invece del viaggio che fece nell'Italia meridionale, a Taranto, dove venne a contatto con la comunità pitagorica di Archita, e a Siracusa dove strinse amicizia con Dione, parente e consigliere del tiranno Dionisio il Vecchio. Entrato in conflitto con Dionisio, fu venduto come schiavo sul mercato di Egina. Riscattato da Anniceride di Cirene, ritornò ad Atene, dove fondò nel 387 l'Accademia. La scuola di Platone, che si chiamò così perché fiorita nel ginnasio fondato da Accademo, fu organizzata sul modello delle comunità pitagoriche come un'associazione religiosa, un tìaso. Alla morte di Dionisio, Platone fu richiamato a Siracusa da Dione alla corte del nuovo tiranno Dionisio il Giovane, per guidarlo nella riforma dello Stato in conformità con il suo ideale politico. Ma l'urto fra Dionisio e Dione, che fu esiliato, rese sterile ogni tentativo di Platone. Alcuni anni dopo, Dionisio stesso lo chiamò insistentemente alla sua corte e Platone vi si recò nel 361, spinto anche dal desiderio di aiutare Dione, che era rimasto in esilio. Ma nessun accordo fu raggiunto e Platone, dopo essere stato trattenuto per un certo tempo, quasi come prigioniero, grazie all'intervento di Archita, lasciò Siracusa e ritornò ad Atene. Qui egli trascorse il resto della sua vita, dedito solo all'insegnamento. Morì a 81 anni, nel 347. Il corpus delle opere di Platone è composto dall'Apologia di Socrate, da 34 dialoghi e da 13 lettere, complessivamente 36 titoli ordinati in 9 tetralogie dal grammatico Trasillo (I sec. d. C.).
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00venerdì 29 settembre 2006 21:24
Il mito della caverna: un viaggio verso la realtà
[...] Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l'entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d'un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...]Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare gli oggetti reali le loro visioni?

Platone, La Repubblica (VII, 514 a - 516 c), in Opere complete, vol. VI, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 229-232

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00venerdì 29 settembre 2006 21:27
Sulla bellezza
[...] L'anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di se non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l'ha riguardato, invasa dall'onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. [...] Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l'unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell'anima, mio bell'amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore.

(Platone, Fedro, in Id., Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari, 1971, pp.250-252.)

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00venerdì 29 settembre 2006 21:29
Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta
Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. [...] Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile. E d’altra parte io non mi sono assuefatto a giudicare me stesso meritevole di nessun male.

(Platone, Apologia, 37 a-38 c; trad. di M. Valgimigli, In Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1971, 62-64).
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00venerdì 29 settembre 2006 21:29
Poiché Dio è buono, Egli non è la causa del mondo
Ne dobbiamo dunque concludere - affermai - che poiché dio è buono, egli non è la causa di tutto, come volgarmente si dice: egli è causa di una minima parte delle cose umane, non della maggioranza ché i nostri beni sono quasi un nulla di fronte ai nostri mali: egli è soltanto la causa dei beni; ma dei mali altrove che in dio va ricercato il principio.

(Platone, Repubblica, XVIII, 379b-d, Utet, III,Torino, 1996, pag. 351)
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00venerdì 29 settembre 2006 21:30
Conoscere è ricordare
L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico: ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù.

(Platone, Menone, 79e-82b, in Opere complete, vol. V, pp. 275-79.)
halu
00venerdì 29 settembre 2006 21:32
La contemplazione della verità
Poiché dunque il pensiero di un dio si nutre di intelletto e di scienza pura, anche quello di ogni anima che abbia a cuore di accogliere quanto le si addice, quando col tempo abbia scorto l'essere, ne gioisce e, contemplando la verità, se ne nutre e si trova in buona condizione, finché la rotazione circolare non riconduca allo stesso punto. Durante l'evoluzione esso vede la giustizia in sé, vede la saggezza, vede la scienza, non quella alla quale è connesso il divenire, né quella che è diversa perché è nei diversi oggetti che noi ora chiamiamo enti, ma quella che è realmente scienza nell'oggetto che è realmente essere. E dopo aver contemplato allo stesso modo le altre entità reali ed essersene saziata, si immerge nuovamente nell'interno del cielo e torna a casa. E una volta arrivata, l'auriga, arrestati i cavalli davanti alla mangiatoia, li foraggia di ambrosia e dopo questa li abbevera di nettare.

(Platone, Fedro, 247 c-e, in Dialoghi filosofici, a cura di G. Gambiano, Torino, Utet, 1981, pp.179 -180)

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00venerdì 29 settembre 2006 21:33
L’Aporia del "nulla"
Straniero - [...]Dimmi: dobbiamo avere il coraggio, mi pare, di pronunciare l'espressione "l'assoluto non essere"?
Teeteto - Come no?
Straniero - Se uno degli ascoltatori, non a scopo di contesa né per scherzare, ma seriamente dovesse rispondere, dopo aver riflettuto, a che cosa deve essere riferito questo nome, il "non essere", in riferimento a che cosa e per quale oggetto noi crediamo che egli ne farebbe uso e che cosa indicherebbe a chi lo interroga?[...]Ma questo almeno è chiaro, che il "non essere" non deve essere riferito a qualcuno degli enti. [...] Ma noi diciamo che, se s'intende parlare correttamente, non bisogna definirlo né come unità né come molteplicità e neppure assolutamente chiamarlo con il "lo", perché anche con questa espressione lo si designerebbe con una specie di unità.


(Platone, Sofista, in Id., Dialoghi filosofici, vol. II, a cura di G. Cambiano, Torino, UTET, 1981, pp. 433-436)

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