Benvenuti a tutti! Oggi è il 25/02 - San Lorenzo Bai Xiaoman Martire


ORACOLO DELLO SHEN SHU - la vita è un cammino, se devi stare attento a ogni passo, non devi però perdere di vista il quadro globale. Fermati e ascolta: dove sei e dove vorresti essere in questo momento? Chi sei e chi vorresti essere in questo momento? Ricorda che il mondo è molto più grande di quanto il tuo pensiero possa immaginare.


 
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Vita, opere, magia di Giordano Bruno

Ultimo Aggiornamento: 26/09/2006 08:57
10/09/2006 07:21
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Giordano Bruno nacque a Nola, presso Napoli, nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni. Il padre Giovanni era un militare di professione e la madre Fraulissa Savolino apparteneva ad una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Gli fu imposto il nome di battesimo di Filippo. Compì i primi studi nella città natale, da lui molto amata e spesso ricordata anche nei lavori più tardi, ma nel 1562 si trasferì a Napoli dove frequentò gli studi superiori e seguì lezioni private e pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l’Università. Nel giugno 1565 decise di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entrò, col nome di Giordano, nell’ordine domenicano dei predicatori nel convento di S. Domenico Maggiore. Si fa rilevare come l’età di 17 anni sia da considerare piuttosto elevata, nel contesto, per decisioni del genere. Nel convento cominciò subito a manifestarsi il contrasto tra la sua personalità inquieta, dotata di viva intelligenza e voglia di conoscere e la necessità di sottostare alle rigorose regole di un ordine religioso: dopo circa un anno era già accusato di disprezzare il culto di Maria e dei Santi e corse il rischio di essere sottoposto a provvedimento disciplinare. Percorse peraltro rapidamente i vari gradi della carriera: suddiacono nel 1570, diacono nel 1571, sacerdote nel 1572 (celebrò la sua prima messa nella chiesa del convento di S. Bartolomeo in Campagna ), dottore in teologia nel 1575. Ma contemporaneamente allo studio serio e profondo dell’opera di S. Tommaso non rinunciò a leggere scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti e la cui scoperta causò l’apertura di un processo locale a suo carico, nel corso del quale emersero anche accuse di dubbi circa il dogma trinitario. Era il 1576 e l’Inquisizione aveva ormai da tempo dato clamorosi esempi di rigore e di efficienza per cui il Bruno, temendo per la gravità delle accuse, fuggì da Napoli abbandonando l’abito ecclesiastico.

Ebbe così inizio la serie incredibile delle sue peregrinazioni, durante le quali si mantenne impartendo lezioni in varie discipline (geometria, astronomia, mnemotecnica, filosofia, etc.). Nell’arco di due anni (1577-1578 ) soggiornò a Noli, a Savona, a Torino, a Venezia e a Padova dove, su suggerimento di alcuni fratelli domenicani e pur in mancanza di una formale reintegrazione nell’ordine, rivestì l’abito. Dopo brevi soste a Bergamo e a Brescia, alla fine del 1578 si diresse verso Lione ma, giunto presso il convento domenicano di Chambery, fu sconsigliato di fermarsi in quella città di confine con i paesi riformati e soggetta a particolari controlli, per cui decise di recarsi nella non lontana Ginevra, la capitale del calvinismo.

Qui venne accolto da Gian Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, esule dall’Italia e fondatore della locale comunità evangelica italiana. Deposto di nuovo l’abito e dopo una esperienza di "correttore di prime stampe" presso una tipografia, il Bruno aderì formalmente al calvinismo e fu immatricolato come docente nella locale università (maggio 1579). Già nell’agosto però, avendo pubblicato un libretto in cui stigmatizzava il titolare della cattedra di filosofia evidenziando ben venti errori nei quali costui sarebbe incorso in una sola lezione, fu accusato di diffamazione e quindi arrestato, processato e convinto a pentirsi sotto pena di scomunica. Il Bruno ammise la sua colpevolezza ma dovette lasciare Ginevra, non senza conservare in sé un forte risentimento. Quasi per reazione si recò allora a Tolosa, in quegli anni baluardo dell’ortodossia cattolica nella Francia meridionale, dove cercò, senza ottenerla, l’assoluzione presso un confessore gesuita, ma poté comunque ottenere un posto di lettore di filosofia nella locale università e per due anni circa commentò il "De anima" di Aristotele. Nel 1581 lasciò anche Tolosa, dove si profilava una recrudescenza delle lotte religiose tra cattolici e ugonotti e si recò a Parigi dove tenne, in qualità di "lettore straordinario" (quelli "ordinari" erano tenuti a frequentare la messa, cosa a lui interdetta come apostata e scomunicato) un corso in trenta lezioni sugli attributi divini in Tommaso d'Aquino. La notizia del successo del corso pervenne al re Enrico III al quale Bruno dedicò subito dopo (1582) il suo "De umbris idearum" con l’annessa "Ars memoriae" ottenendo la nomina a "lettore straordinario e provvisionato". L’appartenenza al gruppo dei "lecteurs royaux" gli consentiva una certa autonomia anche nei confronti della Sorbona, della quale non mancò di criticare il conformismo aristotelico. E’ questo un periodo di grande fecondità nella produzione filosofica e letteraria del Bruno, che pubblica in breve successione il "Cantus circaeus", il "De compendiosa architectura et complemento artis Lullii" e "Il Candelaio". Con il favore del re divenne "gentilomo" (ma ben presto apprezzato amico) dell’ambasciatore di Francia in Inghilterra Michel de Castelnau, che raggiunse a Londra nell'aprile del 1583, e grazie al quale frequentò la corte della "diva" Elisabetta. Continuò qui a pubblicare opere importanti: "Ars reminiscendi", "Explicatio triginta sigillorum" e "Sigillus sigillorum" in unico volume e subito dopo la "Cena delle ceneri", il "De la causa, principio et uno", il "De infinito, universo et mondi" e lo "Spaccio della bestia trionfante". Nell’anno seguente, sempre a Londra, diede alle stampe "La cabala del cavallo pegaseo" e il "Degli eroici furori". Quest'ultima opera, al pari dello Spaccio, è dedicata a sir Philip Sidney, nipote di Robert Dudley conte di Leicester. Alcuni di questi testi risentono di polemiche con l’Università di Oxford e con una parte dell’aristocrazia inglese. Venuto a contatto con la famosa università oxoniana, sospinto dall’irruenza del suo carattere, durante un dibattito mise in difficoltà, senza troppi riguardi, uno stimato docente: John Underhill, e restò così inviso a una parte dei suoi colleghi che non mancarono di manifestare in seguito la loro animosità. Ottenuto infatti, dopo alcuni mesi, l’incarico di tenere una serie di conferenze in latino sulla cosmologia, nelle quali difese tra l'altro le teorie di Niccolò Copernico sul movimento della terra, fu accusato di aver plagiato alcune opere di Marsilio Ficino e costretto a interrompere le lezioni. Ma al di là dei risentimenti personali, confliggevano con la temperie culturale e religiosa inglese del tempo alcune idee di fondo del Bruno, quali appunto la sua cosmologia ed il suo antiaristotelismo. L’episodio del giorno delle ceneri del 1584 (14 febbraio) è significativo: il Bruno era stato invitato dal nobile inglese Sir Fulke Greville ad esporre le sue idee sull’universo. Due dottori di Oxford presenti, anziché opporre argomento ad argomento, provocarono un acceso diverbio ed usarono espressioni che il Bruno ritenne offensive tanto da indurlo a licenziarsi dall’ospite. Da questo fatto nacque "La cena delle ceneri" che contiene acute e non sempre diplomatiche osservazioni sulla realtà inglese contemporanea, attenuate poi, anche per la reazione di alcuni che si sentivano ingiustamente coinvolti in tali giudizi, nel successivo "De la causa, principio et uno". Nei due dialoghi italiani, Bruno contrasta la cosmologia geocentrica di stampo aristotelico-tolemaico, ma supera anche le concezioni di Copernico, integrandole con la speculazione del "divino Cusano". Sulla scia della filosofia cusaniana, infatti, il Nolano immagina un cosmo animato, infinito, immutabile, all'interno del quale si agitano infiniti mondi simili al nostro. Tornato in Francia a seguito del rientro del Castelnau, il Bruno si occupò di una recente scoperta di Fabrizio Mordente, il compasso differenziale, per presentare la quale scrisse - su invito dell’inventore - una prefazione in latino nella cui stesura prevalevano talmente le applicazioni che il Bruno faceva dello strumento per avvalorare le sue tesi filosofiche sul limite fisico della divisibilità, da oscurare o ridurre a un fatto "meccanico" l’invenzione. Offeso, il Mordente si affrettò a comprare tute le copie disponibili e le distrusse. Bruno rinfocolò la polemica pubblicando un dialogo dal titolo e dal tono sarcastico "Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras deo" che indirettamente rese più difficile la sua permanenza a Parigi, essendo il Mordente un cattolico ligio alla fazione del duca di Guisa, che di li a poco avrebbe raggiunto il massimo della sua parabola ascendente, mentre il Bruno ribadiva la sua fedeltà ad Enrico III. Reazioni negative suscitarono di li a poco a Cambrai le tesi fortemente antiaristoteliche contenute nell’opuscolo "Centum et viginti articuli de natura ed mundo adversos peripateticos" discusse a nome del maestro dal suo discepolo J. Hennequin. L’intervento critico di un giovane avvocato che Bruno sapeva appartenere alla sua stessa parte politica, convinsero il filosofo nolano che la permanenza a Parigi non era ulteriormente possibile. Di nuovo ramingo per l’Europa, il Bruno approda nel giugno 1586 a Wittemberg, in Germania, dove insegna per due anni nella locale università come "doctor italus", al termine dei quali si congeda (anche per il prevalere in città della parte calvinista) con una "Oratio valedictoria" con la quale ringrazia l’università per averlo accolto senza pregiudizi religiosi. L’orazione contiene anche un caloroso elogio di Lutero per il suo coraggio nell’opporsi allo strapotere della Chiesa di Roma che ha grande valore come difesa della libertà religiosa ma non rinnega i convincimenti critici del Bruno. circa la dottrina luterana rilevabili in altre opere (specialmente "Cabala" e "Spaccio"). Gli "eroici furori" sembravano al Bruno incompatibili con la paolina teologia della croce.
Dopo un breve soggiorno nella Praga di Rodolfo II, cui dedicò gli "Articuli adversos mathematicos", alla fine del 1588 si reca a Helmstedt dove, per poter insegnare nella locale "Accademia Iulia" aderisce al luteranesimo. Ma i problemi di fondo rimangono: dopo nemmeno un anno è scomunicato dal locale pastore Gilbert Voet per motivi non ben chiariti e che il Bruno sostiene fossero di natura privata. E’ in questa città comunque che vennero pubblicate gran parte delle opere c.d. "magiche": "De magia , De magia mathematica", "Theses de magia", ecc. Il 2 giugno 1590 il Bruno giunge a Francoforte dove chiede ma non ottiene il permesso di soggiorno e rimane precariamente ospitato in un convento di carmelitani. Pubblicati tre poemi latini (De triplice minimo, De monade, De innumerabilis) e dopo alcuni mesi di permanenza a Zurigo dove tiene lezioni di filosofia, torna a Francoforte dove nella primavera del 1591 viene raggiunto da due lettere del nobile veneziano Giovanni Mocenigo che lo invitano a Venezia per insegnargli l’arte della memoria. I motivi per i quali Bruno si decise ad accettare l’invito, con tutti i rischi connessi ad un rientro in Italia, sono tuttora dibattuti tra gli studiosi. Probabilmente a ragione, Michele Ciliberto è convinto che convergessero in questa scelta una pluralità di cause. Scomunicato dalle chiese riformate non meno che dalla cattolica, in rotta con gli ambienti puritani e con la fazione allora dominante in Francia, era isolato e indesiderato a livello europeo. Aveva fiducia nella tradizionale autonomia della Repubblica veneta (dove di fatto sopravvivevano circoli aristocratici orientati in senso "liberale") rispetto al Papa, ed aspirava alla cattedra di matematica dell’università di Padova, allora vacante, che sarà poi di Galileo Galilei. A queste considerazioni, peraltro, il Ciliberto ne aggiunge un’altra, direttamente connessa con gli ultimi raggiungimenti della filosofia del nolano: una sorta di forte autocoscienza, di vocazione in senso riformatore, quasi si sentisse un "Mercurio mandato dagli dei" per diradare le tenebre del presente. Una cosa, rileva ancora Ciliberto, Bruno non aveva previsto: "che razza di uomo fosse il Mocenigo" (Giordano Bruno, cit. pagg. 259 sgg.). Comunque sia, a fine marzo 1592 l’inquieto pellegrino giunge in casa Mocenigo a Venezia. Dopo alcuni mesi il patrizio veneziano, forse insoddisfatto nella sua aspettativa di mirabolanti tecniche magico-mnemoniche, forse anche indispettito per il carattere indipendente del Bruno che mal si adattava alla condizione di "famiglio", specialmente di una persona così insipiente (egli si apprestava tra l’altro ad andare a Francoforte per far stampare libri e continuava a sperare in una cattedra a Padova), contravvenendo alle più elementari regole dell’ospitalità, rinchiuse Bruno nelle sue stanze e lo denunciò alla locale Inquisizione asserendo di averlo sentito profferire bestemmie e frasi eretiche. Dopo un paio di mesi peraltro il processo, subito iniziato, si presentava in modo abbastanza favorevole al Bruno, che si era difeso sostenendo di aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede si rimetteva pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potesse aver pronunciato. Ebbe inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Quando tutto faceva sperare in una prossima assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al tribunale centrale del S. Uffizio. La prima risposta del senato, geloso custode dell’autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, nella considerazione che l’inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare (ci si riferiva ai fatti del 1575) giunse alla fine il nulla-osta e nel febbraio 1593 il gran peregrinare del Bruno terminò in una cella del nuovo palazzo del S. Uffizio, fatto costruire da Pio V nei pressi di Porta Cavalleggeri. Del processo, che si protrasse per ben sei anni e durante il quale per una volta almeno si ricorse con ogni probabilità alla tortura, ci rimane una "sommario", ritrovato stranamente nell’archivio personale di Pio IX e pubblicato da A. Mercati nel 1942. Si tratta quasi certamente di una sintesi compilata ad uso dei giudici, per consentire loro una visione d’insieme che non era facile avere nella gran congerie dei documenti originali. Un fondamentale studio di questo estratto è contenuto nel libro di L. Firpo "Il processo di Giordano Bruno", Napoli, 1949, al quale si rinvia per i particolari drammatici e significativi dell’intricato procedimento che, oltre a fornire numerosi dati sulla vita del Bruno, mostra il progressivo sgretolamento della sua tesi difensiva della separatezza tra il piano filosofico (sul quale, soltanto, lui asseriva di aver speculato) e quello teologico, che non gli interessava. Decisivo al riguardo fu l'ingresso nel tribunale nel 1597 del teologo gesuita Roberto Bellarmino, chiamato ad esaminare gli atti processuali e soprattutto le opere a stampa per enuclearne il contenuto eterodosso. Quando il nolano, che pure durante il processo aveva cercato di dissimulare, attenuare e talvolta anche accettato di ripudiare talune sue posizioni in più aperto conflitto con la dottrina cattolica si trovò di fronte alla necessità - per salvarsi - di rifiutare in blocco le sue idee, giudicate radicalmente incompatibili con l’ortodossia cristiana, si irrigidì in un fermo e sprezzante rifiuto e fu la fine. Il 20 gennaio 1600 Clemente VIII, considerando ormai provate le accuse e rifiutando la richiesta di ulteriore tortura avanzata dai cardinali, ordinò che l’imputato, "eretico impenitente", pertinace, ostinato", fosse consegnato al braccio secolare. Ciò significava, nonostante la presenza nella sentenza della solita ipocrita formula che invocava la clemenza del Governatore, la morte per rogo. L’8 febbraio la sentenza fu letta nella casa del Card. Madruzzo e fu allora che il Bruno, come riferisce un attendibile testimone oculare (lo Schopp) rivolto ai giudici pronunciò la famosa frase "Forse avete più paura voi che emanate questa sentenza che io che la ricevo" (trad. dal latino). Il successivo giovedi 17 febbraio 1600 - anno santo - venne condotto a Campo de' Fiori con la lingua in giova" cioè con una mordacchia che gli impediva di parlare e qui, spogliato nudo e legato a un palo venne bruciato vivo ostentatamente distogliendo lo sguardo da un crocefisso, del quale stava condividendo la sorte ma che gli volevano far apparire come carnefice. Aveva messo in pratica e purtroppo sperimentato sulla sua pelle una considerazione di molti anni prima e cioè che "dove importa l’onore, l’utilità pubblica, la dignità e perfezione del proprio essere, la cura delle divine leggi e naturali, ivi non ti smuovi per terrori che minacciano morte" (Dialoghi Ital. a cura di G. Gentile Firenze 1985 pp. 698-99).
Nel sommario del processo ci sono tramandati i capi d’accusa (24) ma non quelli ritenuti provati nella sentenza, che peraltro ci sono così riferiti dallo Schopp, a memoria:
1. Negare la transustanziazione;
2. Mettere in dubbio la verginità di Maria;
3. Aver soggiornato in paese d’eretici, vivendo alla loro guisa;
4. Aver scritto contro il papa lo "Spaccio della bestia trionfante";
5. Sostenere l’esistenza di mondi innumerevoli ed eterni;
6. Asserire la metempsicosi e la possibilità che un anima sola informi due corpi;
7. Ritenere la magia buona e lecita;
8. Identificare lo Spirito Santo con l’anima del mondo;
9. Affermare che Mosé simulò i suoi miracoli e inventò la legge;
10. Dichiarare che la sacra scrittura non è che un sogno;
11. Ritenere che perfino i demoni si salveranno;
12. Opinare l’esistenza dei preadamiti;
13. Asserire che Cristo non è Dio, ma ingannatore e mago e che a buon diritto fu impiccato;
14. Asserire che anche i profeti e gli apostoli furono maghi e che quasi tutti vennero a mala fine.

Di tali errori il quarto risulta manifestamente infondato essendo lo "Spaccio" piuttosto antiluterano che antipapista; le volgari invettive contro Cristo, i profeti e gli apostoli dei nn. 13 e 14 sono evidentemente echi di sfoghi contingenti di una persona esasperata. Dove il contrasto con l’Istituzione appare insanabile è piuttosto con il nucleo centrale della dottrina del Bruno, adombrato nei punti 5, 6 e 8. Non è qui il caso di approfondire il sistema filosofico del nolano, ma il solo pensare che la terra, da centro di un limitato universo, oggetto specifico e privilegiato dell’azione creatrice di Dio, diventi un minuscolo puntolino in un universo infinito e tra mondi infiniti; che tale universo è pervaso e vivificato da uno spirito divino immanente; che nel continuo trasformarsi della vita anche le anime, immortali, informano corpi diversi, ecc. rendeva le Scritture, Cristo, la Vergine, i profeti e i dogmi come imperfettissime ombre di una realtà che la filosofia mostrava ben più grande, e tutt’al più utili a tenere quieti i popoli. Probabilmente le idee di Bruno non sarebbero mai riuscite a far presa sulle masse, a sollecitare scismi lontanamente paragonabili a quello luterano; ma insomma si trattava, in un certo senso, di un tentativo di sostituire una nuova "summa" sull’universo a quella tradizionale di S. Tommaso. E questo fu considerato un pericoloso esempio, un attentato alla supremazia della teologia sulla filosofia, della religione sulla ragione.

- fonte: www.giordanobruno.info
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Tutte le cose hanno un'anima
La tesi fondamentale di Giordano Bruno è che tutte le cose hanno un'anima. Tale affermazione è il frutto di considerazioni neoplatoniche portate alle estreme conseguenze: se il principio che muove ogni cosa è lo spirito, in veste di "nocchiere della nave", ovvero di guida che dà l'intelligenza ai corpi, allora ogni ente terreno, sia esso animale, vegetale o minerale è dotato di questo spirito, di questa intelligenza, in varia misura rispetto alla consapevolezza che compete a ciascun ente (l'uomo è più consapevole del proprio spirito rispetto agli animali, gli animali ne sono più consapevoli rispetto ai vegetali, i vegetali lo sono più dei minerali).

Le affermazioni di Bruno non sono il frutto di semplici elucubrazioni magiche (seppure egli fosse considerato dai suoi contemporanei niente di più che un mago), ma traggono forza proprio dalla constatazione spiritualista che il principio che rende le cose vive non può essere generato solamente da fattori fisico-meccanici, ma mostra invece l'evidenza di un'intelligenza sottesa alle cose, per cui esse sono in un certo modo e si relazionano tra loro secondo un preciso ordine naturale che rappresenta lo stesso principio divino.

Le cose non sono animate solo per il fatto di essere vive e in movimento, ma lo sono anche e soprattutto per avere in sé quel proprio principio strutturale interno che permette loro di acquisire una certa forma e non un'altra. Questo principio strutturale di tutte le cose è l'anima divina che si palesa nella materia (l'anima plasma quindi la materia eterna e le dà una forma finita e mortale). La materia è incorruttibile e indistruttibile, come del resto l'anima, e quest'anima interviene dando una forma sempre diversa alla stessa materia. Il mutamento nel mondo è allora il mutamento delle forme, mentre lo spirito che le anima rimane fermo a plasmare le cose secondo la propria intelligenza. Questo processo è simile a quello che Platone attribuisce al Demiurgo.

Questa visione di un mondo animato dalla presenza del principio divino nella materia organica come in quella inorganica dà al creato un'interpetrazione fortemente panteista: Dio è in ogni cosa come principio vitale, entro le pietre come negli uomini, l'intera natura è un grande organismo unitario il quale è esso stesso evidenza dell'intelligenza divina.

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Il rapporto con la magia
La magia, ovvero la convinzione che la materia abbia in sé un principio spirituale che interagisca con l'uomo e il suo intelletto, è una delle caratteristiche salienti dell'umanesimo rinascimentale, in particolare nell'ambito della riscoperta dell'indagine naturale. Bruno fu senz'altro un mago relativamente a tale accezione, interessato com'era ad attribuire un principio spirituale ad ogni ente e a scoprire e mettere in evidenza il segreto formale della materia.

Tutto nel mondo è animato, poiché la forma che il mondo assume è conseguenza di un'azione spirituale superiore. Questa evidenza viene dimostrata, secondo Bruno, nel fatto che certi farmaci e certe erbe medicinali influiscono anche sullo spirito, tale evidenza dimostra quindi un nesso che lega ogni cosa creata alle altre.

"Se dunque lo spirito, l'anima, la vita si ritrova in tutte le cose e, secondo certi gradi, empie tutta la materia, viene certamente a essere il vero atto e la vera forma di tutte le cose. L'anima, dunque, del mondo è il principio formale costitutivo, dell'universo e di ciò che in quello contiene." (G. Bruno, dal dialogo De la causa, principio et uno).

La magia, contrariamente all'opinione comune, non fu molto diffusa nell'epoca classica, per tutto il medioevo rimase poi ai confini della scienza, ma sempre gravata dal peso dell'accusa di satanismo che le muoveva la Chiesa. Bruno era un mago in quanto i suoi studi sull'anima dei minerali confluivano necessariamente nella pratica alchemica, inoltre Bruno si occupava di mnemonica (le tecniche di potenziamento della memoria), di numerologia e di geometria.

L'interesse per la numerologia e per la geometria era per Bruno una conseguenza inevitabile della teoria atta a mostrare l'intelligenza della materia, e in questo si può senz'altro scorgere un eco delle dottrine pitagoriche. La numerologia attribuiva ai numeri e alle loro combinazioni poteri magici in forza delle relazioni matematiche tra le cose, relazioni che esprimevano, in un'ultima analisi, quella armonia tra le parti sulla quale tutto l'universo poggiava necessariamente. Ecco perché i rapporti numerologici erano in grado, secondo Bruno, di esprimere verità metafisiche.

Per quanto riguarda la geometria, essa rappresentava l'inevitabile collegamento tra la struttura numerica e quella formale delle cose, per cui ogni cosa assumeva una certa forma assecondando il codice numerico suo proprio, codice nel quale si rispecchiava necessariamente la presenza di un'intelligenza divina superiore e costituente (si pensi, come esempio contemporaneo, al codice genetico).

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La mnemonica, l' 'ars inveniendi'
Bruno si può considerare il primo studioso moderno della memoria. Già coltivata dai sofisti (Ippia si vantava di esserne il maestro), la mnemonica è l'arte di utilizzare al meglio la memoria, facendone uno strumento portentoso di "catalogazione".

Già nel "Ad Caium Herennium" (un trattato anonimo dell'82 d.C.), si dimostra come gli eventi che maggiormente ci restano impressi siano quelli ai quali vengono associate forte emozioni, o comunque particolari stati emotivi (è per questo che la mente non ricorda a volte gli avvenimenti ordinari come la cena o il pranzo del giorno prima, ma può tenere in sé il ricordo di eventi legati all'infanzia o a particolari esperienze vissute).


Una delle tecniche più usate per aumentare le capacità della memoria sono le immagini mnemoniche: queste sono disegni fortemente surreali dettati dall'esigenza di creare figure che abbiano in sé tutti gli elementi che permettono di ricordare qualcosa (ad esempio, per ricordarci del nome di pura invenzione "Alba Forestieri", l'immagine da associare potrebbe essere un sole che sorge su una foresta, e questo è uno dei casi più semplici).

La mnemonica era uno strumento dell'ars inveniendi: l'arte di trovare il metodo più adatto a favorire nuove scoperte in modo subliminale e inconscio. Bruno ideò una "macchina per inventare", nel suo De umbris idearum, la quale consisteva in un sistema di ruote mnemonico-associative, nelle quali al centro venivano poste immagini archetipe, mentre lettere, numeri e simboli su diversi livelli di circonferenze ruotavano trovando le giuste combinazioni tra tutte le infinite possibilità.
L'idea era che immagini archetipe legate alla nascita del cosmo e ai suoi significati (schemi di talismani, immagini celesti e mitologiche, segni astrologici, tracce di orbite planetarie), potessero inconsciamente influenzare la mente nella ricerca di quelle verità che ancora non erano state portate alla luce.

La verità dei meccanismi divini era nascosta in tutte le cose, grazie all'aiuto di una adeguata simbologia, la mente umana, entro la quale molto platonicamente (si veda la reminescenza di Platone) vi sarebbero racchiuse, se non le verità stesse, le possibilità potenziali per raggiungerle, poteva conoscere l'inconosciuto.
L'idea di Bruno era che la mente fosse un potente strumento di ricerca: l'uomo ha dunque la possibilità, nel pieno rispetto dello spirito rinascimentale, di utilizzare al meglio capacità mentali in lui sopite ma potenzialmente infinite.


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L'universo infinito è popolato da mondi infiniti
Bruno fu anche il sostenitore di una nuova visione del cosmo. Radicalizzando la teoria copernicana (la quale sosteneva pur sempre che il Sole fosse immobile al centro dell'universo), Bruno affermò che l'universo è infinito e la Terra non è altro che uno dei molti pianeti che popolano l'immensità di questo infinito.


A chi affermava che era la Terra ad essere al centro dell'Universo, Bruno rispondeva adducendo il fatto che in un universo infinito vi sono infiniti centri, vista l'impossibilità di definire in modo certo un centro in mancanza di confini. A chi afferma invece che l'universo era limitato dall'Ultimo Cielo (l'Empireo aristotelico-tolemaico), Bruno rispondeva che ogni limite che si crede ovvio per il fatto di non vedere nulla oltre è solo una limitazione della capacità visiva, come se l'uomo affermasse di vedere la fine di un bosco per il fatto di non vedere più alberi all'orizzonte.

In particolare questa infinità del cosmo, che ne sottolineava la perfezione divina, costituisce un luogo entro il quale tutti i corpi sono soggetti alle stesse leggi fisiche in modo omogeneo (non così per la visione aristotelica che differenziava le leggi fisico-cosmologiche in ragione delle diverse sfere). L'infinità dello spazio è un concetto necessario a rendere giustizia della sua perfezione, qualità che rispecchia la stessa perfezione divina, la quale è lo stesso universo, lo stesso mondo, la stessa natura.
Inoltre a chi sosteneva che le stelle fossero fisse e immobili entro delle sfere di materiale concreto, Bruno opponeva il fatto che l'osservazione degli astri dimostra che ve ne sono certi più grandi di altri, e tale varietà di dimensioni contrasta con l'idea che vuole le stelle degli oggetti di egual misura posti a egual distanza dalla Terra in ragione di una loro fissità impressa nelle sfere.

Tali dimostrazioni mettevano in evidenza un concetto fondamentale: Bruno riteneva che la verità attorno alla struttura della realtà non può essere decisa dalla sola percezione sensibile, i sensi non percepiscono necessariamente la verità quando, ad esempio, si afferma che l'universo è finito perché non se ne scorge l'ampiezza ad occhio nudo.

Dunque è da notare, per finire, che Bruno, partendo da presupposti neoplatonici legati all'opportunità metafisica dell'infinità dello spazio, arrivò a definire un concetto di Universo molto vicino a quello odierno.


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La naturatutta è governata da una profonda armonia, invisibili linee collegano le piccole cose della terra, come per esempio i poteri degli uomini agli astri e agli infiniti mondi che ancora non conosciamo.La luna provoca le maree, e anche il mestruo delle donne, il sole provoca la vita e la morte delle piante e l'avvicendarsi delle stagioni, e anche la vita e la morte dell'uomo.

Giordano Bruno
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La terra con tutti i suoi problemi, per G. Bruno, è il necessario luogo di lotta attraverso cui si possa sentire e pervenire a quel Cielo che, anche se razionalmente ingiustificabile, si cela, dietro la loro illusiva ed esteriore parvenza materiale, nella profonda anima di tutte le cose. Si possono abbandonare le nostre realtà terrene solo dopo averle intuite, vissute, sofferte sino in fondo ed è perciò assurdo credere di poter anelare alla divinità estraendosi dalle cose, rinunciando aòòa sofferenza per le cose, per queste realtà naturali che sono "vestigi di Dio", "ombre ideali"; attraverso le quali noi possiamo scoprire la luce più vera, più divina, eterna che esse, anche se le ignorano, riporteranno al sè.

- G. Fraccari
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